La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n.24895/2021, si è pronunciata sulla responsabilità del medico che sia stato chiamato dal Collega per effettuare una consulenza sullo stato di salute del paziente.
Ebbene, i Giudici hanno ritenuto che, anche se interpellato per un semplice consulto, lo specialista non può esimersi dalla responsabilità che gli compete nel momento in cui valuta le condizioni del paziente e rilascia il proprio parere.
Di seguito i fatti.
La paziente, affetta da iperpiressia da tre giorni, stato confusionale e cefalea effettuava accesso al Pronto soccorso su indicazione del medico curante. La donna risultava essere “in stato di agitazione, non collaborante, piretica”: le venivano dunque somministrati farmaci e veniva sottoposta a rx al torace e tac al capo. Durante la tac, a causa di un episodio di forte agitazione psicomotoria, veniva attuata contenzione fisica a seguito della sottoscrizione da parte dei familiari del relativo consenso informato.
Al termine del proprio turno di lavoro, il medico del pronto soccorso affidava la paziente al Collega subentrante, suggerendogli di contattare il neurologo reperibile. Quest’ultimo visitava dunque la donna, visionava la tac e confermava il sospetto clinico di meningite, annotando “paziente vigile ma non contattabile, non parla né esegue comandi, isocorica, nuca rigida e decubito preferenziale laterale”. Consigliava pertanto di trasferire la paziente presso una struttura sanitaria che avesse un reparto di malattie infettive, dal momento che l’ospedale dove si trovavano ne era privo. Il neurologo non indicava alcuna terapia da somministrare alla donna nell’attesa del trasferimento.
Il Collega del pronto soccorso, dunque, seguendo le istruzioni fornite dal neurologo, cercava ripetutamente di trasferire la paziente presso altra struttura, incontrando tuttavia non poche difficoltà. Nel frattempo, veniva contattato ripetutamente al telefono il neurologo che riteneva di non eseguire la rachicentesi, esame considerato fondamentale per la diagnosi di meningite. Egli, piuttosto, sosteneva che tale procedura dovesse essere effettuata presso la struttura di destinazione che era dotata del reparto di malattie infettive. In caso di mancato trasferimento della donna, il neurologo consigliava telefonicamente di eseguire emocolture e successiva terapia antibiotica.
La paziente veniva poi trasferita in codice rosso presso altra struttura.
I medici furono dunque querelati e si trovarono ad affrontare un processo penale con l’accusa di aver causato alla donna, in cooperazione colposa, lesioni personali tali da porre la stessa in pericolo di vita, così come accertato dal personale medico della struttura ove la stessa giungeva in coma. Si contestava ai medici inoltre di averle causato un deficit uditivio derivante dalla meningite pneumococcica non prontamente dignosticata, nè curata, in violazione delle Linee Guida del 2014, predisposte dal Ministero della Sanità, che prescrivono di procedere con diagnosi e cure tempestive, proprio al fine di evitare complicanze.
Nel dettaglio, al medico del pronto soccorso del turno di notte, che ricevette la paziente con una chiara indicazione di meningite, venne imputato di non aver immediatamente iniziato la terapia antibiotica così come prescritto dalle linee guida di quel pronto soccorso.
Allo specialista neurologo venne imputato di non aver subito disposto la terapia antibiotica o in ogni caso di non aver controllato che il collega del pronto soccorso la attuasse.
Il medico del pronto soccorso, in primo grado fu condannato, poichè si riteneva che avrebbe dovuto conoscere le terapie da attuare, in quanto indicate nel protocollo, senza necessità di attendere le indicazioni del collega neurologo.
Il neurologo, invece, venne assolto. Non gli fu contestato nè di non aver controllato, nè di non aver verificato l’operato del Collega di pronto soccorso.
In secondo grado, la Corte d’Appello confermava la pena inflitta al medico di pronto soccorso. Inoltre, dichiarava il neurologo responsabile agli effetti civili del reato contestato e lo condannava al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla paziente, costituitasi parte civile, in solido con il medico del pronto soccorso.
La Corte di Cassazione viene dunque chiamata a rispondere al seguente quesito: il medico di pronto soccorso che aveva chiesto la consulenza specialistica del Collega, avvrebbe potuto e dovuto attivarsi in autonomia a porre in atto le indicazioni terapeutiche che non gli erano state fornite? Egli era tenuto a conoscere comunque quelle linee guida che raccomandavano di somministrare celermente la terapia antibiotica? Infine il medico che ha chiesto il consulto è da considerare responsabile, al pari del Collega che ha fornito la consulenza?
Secondo i Giudici, la risposta a queste domande è positiva.
Nell’ambito della colpa professionale medica, qualora sussista una cooperazione multidisciplinare, anche se non svolta contestualmente tra i vari operatori, “ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza della cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere dell’eccezionalità ed imprevedibilità”.
Dunque, “ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da un altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”. Inoltre, il soggetto agente che non ha osservato la regola precauzionale dalla quale deriva l’altrui condotta colposa, non può invocare il principio dell’affidamento poiché allorquando il garante precedente – in questo caso il medico del Pronto Soccorso – abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, “unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo”. Né vale ad esimere da responsabilità nemmeno la circostanza che il collega sia più anziano, poiché è escluso “che possa invocare esonero da responsabilità il medico che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l’erroneità, ed avendo pertanto il dovere di valutarla e, se del caso, contrastarla”.
Quindi certamente sussiste la responsabilità del medico del pronto soccorso.
Viene riconosciuta anche la responsabilità del neurologo specialista, perché suo compito “non era solo quello di visitare il paziente e di formulare una corretta diagnosi, ma anche di prescrivere la terapia, interessarsi alla vicenda, somministrare i farmaci salvifici personalmente o controllare che altri lo facessero”.
Puntualizza la Corte: “Con riguardo alla posizione di garanzia del medico che sia stato interpellato anche solo per un semplice consulto specialistico e che accerti l’esistenza di una patologia ad elevato ed immediato rischio di aggravamento, ha l’obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici ritenuti idonei ad evitare eventi dannosi ovvero, in caso di impossibilità di intervento, portando a conoscenza dei medici specialistici la gravità o urgenza del caso ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l’assistenza specializzata venga prestata nel reparto dove il paziente si trova ricoverato specie laddove questo reparto non sia idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia professionale”.
Si conclude affermando: “ciò in quanto il medico che (…) venga chiamato per un consulto specialistico, ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto, non potendo esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione”.
Quindi, nell’ambito dell’attività professionale che sfoci in una collaborazione e dunque in una attività considerata d’equipe, il professionista che sia chiamato ad effettuare un consulto, è tenuto a prestare con diligenza la propria opera professionale. Potrebbe infatti essere chiamato poi a rispondere civilmente e penalmente della consulenza fornita, al pari del Collega che lavora nel reparto presso il quale il paziente è ricoverato.